Quando il Silenzio Fa Rumore: Riflessioni Psicologiche sul Suicidio di Alexandra (Davide Garufi)

La notizia del suicidio di Alexandra, nome scelto da Davide Garufi nel suo percorso di transizione, ha scosso profondamente chiunque abbia incrociato anche solo per un istante la sua presenza pubblica. Alexandra era molto più di un volto noto o di un personaggio social: era una persona in cammino verso la verità di sé, con coraggio, fragilità e determinazione.
La sua morte, al di là della cronaca, ci obbliga a riflettere su alcune domande fondamentali: cosa accade quando la ricerca di autenticità incontra il rifiuto sociale? Qual è il costo psichico di vivere una transizione sotto gli occhi di una società ancora impreparata ad accogliere? Che ruolo giocano i social media nella costruzione – e nella dissoluzione – del senso di sé?
Questo articolo esplora il suicidio di Alexandra da una prospettiva psicologica e culturale, articolando una riflessione su tre assi fondamentali: l’identità di genere e il suo riconoscimento, l’influenza ambivalente dei social network, e il suicidio come esito estremo di una sofferenza invisibile.
1. Alexandra e la ricerca dell’identità: tra visibilità e solitudine
La transizione di genere è, prima di tutto, un processo psicologico. Non si tratta solo di trasformazioni fisiche, ma di un percorso profondo di riconciliazione con la propria verità interiore. Alexandra aveva scelto di vivere questa verità alla luce del sole, ma farlo in una cultura ancora ancorata a visioni binarie e stereotipate richiede un coraggio enorme.
Chi intraprende un percorso di transizione spesso incontra non solo ostacoli medici e burocratici, ma anche – e soprattutto – barriere affettive, relazionali e simboliche. Il desiderio di essere riconosciuti per ciò che si è davvero si scontra spesso con il rifiuto, il ridicolo, o il silenzio da parte della società. E il silenzio, per chi sta cercando se stesso, può essere devastante.
2. I social media: visibilità tossica e crisi del Sé
Alexandra aveva una presenza significativa sui social. Come molte persone transgender, cercava in quel mondo virtuale uno spazio di espressione, di autoaffermazione e forse anche di riconoscimento. Ma i social sono un territorio ambivalente: offrono visibilità, ma spesso la trasformano in esposizione; promettono comunità, ma generano facilmente isolamento.
I feedback negativi, il ghosting digitale, la perdita di visibilità possono generare una crisi narcisistica profonda (Kohut, 1971), soprattutto in chi ha costruito online parte della propria identità. Quando lo specchio sociale – ovvero l’altro da cui ci sentiamo visti – smette di rifletterci o ci respinge, la nostra immagine interna può collassare.
Molti studi mostrano come la discriminazione online aumenti esponenzialmente il rischio di depressione e suicidio tra le persone LGBTQIA+, in particolare tra coloro che vivono in modo visibile la propria transizione (Bauer et al., 2015; The Trevor Project, 2021).
3. Il suicidio come risposta al dolore mentale
Il suicidio, come ricorda Shneidman (1996), non è un desiderio di morte, ma una risposta disperata al dolore psichico percepito come interminabile e senza uscita. Si parla di perturbazione psicache, un dolore soggettivo, spesso invisibile, che si accumula quando mancano contenitori emotivi sufficienti a contenerlo e trasformarlo.
Nel caso di Alexandra, la solitudine, la non appartenenza, l’incomprensione sociale, e forse la sensazione di non “riuscire” a essere riconosciuta per ciò che era, possono aver costituito un terreno fertile per quel dolore invisibile.
La teoria di Joiner (2005) aggiunge un altro tassello: il suicidio emerge quando la persona percepisce di essere un peso, di non appartenere più, e quando ha acquisito – magari per abitudine al dolore – la capacità di superare la paura della morte. È una condizione estrema, che non nasce all’improvviso ma si costruisce nel tempo, spesso nel silenzio.
4. La mancanza di cura: fallimento relazionale e culturale
Alexandra non è “morta da sola”. La sua morte è il sintomo di un fallimento collettivo. Fallimento del tessuto sociale, delle reti affettive, del sistema culturale che ancora oggi non garantisce sufficiente protezione, sostegno, ascolto alle persone transgender.
Non basta tollerare. Serve accogliere. Serve costruire spazi terapeutici e relazionali in cui ogni identità possa sentirsi valida, legittima, e riconosciuta. La psicoterapia – e ancor prima l’ascolto umano – deve essere presente non solo nei momenti di crisi conclamata, ma lungo tutto il percorso di affermazione identitaria.
Abbiamo bisogno di una cultura della cura. Una cultura che non costringa a spiegarsi per essere amati. Che non giudichi chi non rientra nei canoni dominanti. Che sappia restare, anche quando è scomodo, anche quando non capisce del tutto.
Conclusione: Alexandra ci riguarda
Alexandra non è solo una notizia di cronaca. È una storia di coraggio, ma anche di dolore inascoltato. È una voce che oggi manca, ma che ci lascia una domanda: che tipo di mondo vogliamo costruire?
Un mondo che include o che isola? Che accoglie o che misura l’altro in base alla conformità?
Parlare della sua morte, con rispetto e verità, non è morboso. È un atto necessario per dare senso a ciò che è accaduto e impedire che accada ancora.
Bibliografia
- Bauer, G. R., et al. (2015). Transgender mental health and suicidality: A review. The Lancet Psychiatry, 2(1), 21–30.
- Freud, S. (1917). Lutto e melanconia. Bollati Boringhieri.
- Joiner, T. (2005). Why People Die by Suicide. Harvard University Press.
- Kohut, H. (1971). The Analysis of the Self. International Universities Press.
- Shneidman, E. (1996). The Suicidal Mind. Oxford University Press.
- The Trevor Project. (2021). National Survey on LGBTQ Youth Mental Health.
- Turkle, S. (2011). Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other. Basic Books.
- Boyd, D. (2014). It’s Complicated: The Social Lives of Networked Teens. Yale University Press.
- Van Heeringen, K. (2001). Understanding Suicidal Behaviour. Wiley.